di Paolo Quadrozzi 

In Dark Experiment, in scena fino all’8 giugno scorso al Teatro di Documenti a Roma con la regia di Nicola Ragone, quattro ragazzi ciechi si perdono di notte nel bosco che circonda l’istituto che li accoglie e non trovano più la strada di ritorno. La loro unica guida, un anziano e malato sacerdote, è scomparsa. Così l’angoscia, la disperazione e il senso di abbandono prendono il sopravvento tra i ragazzi – un uomo e tre donne – e la notte diventa ancora più cupa. Immersi nel buio e senza la possibilità di riconoscere volti e sembianze fisiche degli attori, gli spettatori ascoltano le paure, i dubbi, le insicurezze e i ricordi dei ragazzi. La voce degli attori è lo strumento principale, insieme ad alcuni oggetti che alcuni di loro utilizzano nel corso dello spettacolo (come una scatola di fiammiferi e un libro), a disposizione degli spettatori per seguire l’evoluzione della traccia narrativa. Una scelta registica senza dubbio originale ma che non valorizza le doti degli attori, anzi le sminuisce. Una decisione che fa emergere, ad esempio, la voce decisa e calda dell’unico uomo in scena, ma fa piombare in un secondo piano – indistinto e poco riconoscibile – le tre restanti voci femminili. Discutibile anche la scelta di coinvolgere poco e in modo frammentario gli spettatori che, privi della vista, avrebbero potuto utilizzare gli altri sensi per “entrare in scena”. Far percepire l’odore delle foglie morte del bosco o il profumo dei fiori selvatici, due elementi di cui gli attori parlano a più riprese, avrebbe permesso di raggiungere un risultato più intrigante. Degna di nota la scenografia di Carla Ceravolo, in particolare nell’allestimento che accompagna il pubblico tra le stanze del teatro fino al palcoscenico principale. Un percorso di suggestioni e visioni capace di immergere lo spettatore nel sogno, o meglio nell’incubo, che i ragazzi vivono nello spazio scenico. In sintesi, Dark Experiment è un esperimento teatrale interessante ma riuscito solo in parte e che lascia molti interrogativi nel pubblico, disorientato e stordito dai troppi – e poco chiari – riferimenti simbolici. Il risultato finale è uno spettacolo confuso e incerto che non sfrutta le buone capacità degli attori –  un plauso ai giovani Marina Crialesi, Cosimo Frascella, Chiara Laureti e Giorgia Palmucci – e offre un prodotto scarsamente comprensibile e fruibile.